Vito Teti: “C’è Calabria e Calabria, ma spesso facciamo di tutto per confermare pregiudizi"

tetivitodi Valeria Guarniera - "Abitare nei luoghi non è un fatto gratuito, non è una concessione, è una scommessa, è un impegno". Ordinario di etnologia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, Vito Teti alla sua Calabria – che ama e conosce profondamente - non fa sconti. Nel tentativo di smontare i luoghi comuni che appiattiscono questo "Maledetto Sud" ha comunque uno sguardo critico ed esorta, prima di tutto, ad una presa di coscienza perché a confermare quei pregiudizi, a rafforzare quegli stereotipi sono stati spesso proprio i calabresi, "mostrandosi essi stessi maledetti, con un atteggiamento apatico, retorico, lacrimevole", attraverso un arroccamento identitario sterile e immobile: "Dobbiamo raccontarci e assumerci noi le verità scomode, anziché negarle o farcele rinfacciare dagli altri". Parla di identità, tradizione, memoria: termini che devono essere adoperati – e vissuti – in maniera dinamica, proiettata al movimento, al cambiamento. E poi partire, restare, tornare. Scelte o condizioni imposte dalla vita che comunque devono assumere un senso etico, lontano dall'indifferenza o dall'immobilismo, perché – ne è convinto il professore - è importante muoversi pur restando fermi"

Un paese ed altri scritti giovanili (1911-1916) è una raccolta di scritti inediti di Corrado Alvaro – che lei stesso ha scoperto - appena pubblicata da Donzelli. Di Corrado Alvaro si parla spesso ed è indubbiamente un autore importantissimo che a suo dire è più citato (a volte anche malamente) che studiato...

Purtroppo in Calabria non si legge tantissimo, e questo è un dato generalizzato. Nelle scuole forse non si trova il tempo per "iniziare" i ragazzi alla lettura di Alvaro. E poi forse risente di una sorta di marginalizzazione di autore regionale, mentre sappiamo benissimo che Alvaro in realtà è stato uno scrittore europeo. Quindi diciamo che i fattori sono diversi, ma al primo posto metterei che purtroppo non siamo un popolo di lettori. Io ho un'esperienza didattica abbastanza significativa da questo punto di vista: faccio una domanda agli studenti del primo anno per capire quanti di loro abbiano letto Alvaro e devo dire che sono pochi a sapere davvero chi sia. Vedo poi che, specie tra un certo ceto politico e anche tra certi operatori della cultura, il riferimento ad Alvaro è spesso rituale, liturgico ma non convinto e ancora meno frutto di uno studio attento delle sue opere. Questa antologia di scritti inediti rappresenta un vero scoop letterario, un avvenimento inatteso: miracolosamente sono venute fuori queste carte, note, poesie che erano state custodite da un compagno di Liceo al Galluppi di Catanzaro – Domenico Lico – con cui Alvaro aveva fraternizzato. Si tratta di prime prove d'autore in cui si vede già la vocazione, la passione di un Alvaro poeta, già molto colto, con delle solide letture alle spalle, con una buona conoscenza del greco e del latino. Dalla testimonianza di Lico viene fuori un giovane leader politico in prima fila negli scioperi contro l'Austria. Un Alvaro irredentista, repubblicano. E anche un Alvaro conferenziere, che già a 16/17 anni, entra nelle elite intellettuali catanzaresi.

Definisce il Sud come "luogo di ossimoro" ricco di contrasti climatici, storici, sociali, produttivi. "Le regioni del Sud – scrive – presentano profonde differenze. Eppure tutto viene artificiosamente unificato".

Si. In genere si fa nascere la marginalizzazione e la differenza Nord/Sud con l'unificazione nazionale. In realtà con l'unificazione nazionale viene creata e inventata una questione meridionale. Però questa nasce attraverso un'operazione di unificazione di regioni e di realtà diverse, che prima venivano percepite separatamente. Realtà che avevano delle loro specificità, e che dopo vengono unificate nel blocco geografico, amministrativo, culturale Meridione/Mezzogiorno. Un modo per ridurre ad unità qualcosa che si presentava con una varietà e con una ricchezza da quel momento sostanzialmente ignorate.

Ha definito il suo ultimo saggio – Maledetto Sud – come "un urlo di dolore e amore, di rabbia e delusione" e, tra le pagine, c'è il tentativo di smontare i luoghi comuni dei pregiudizi che segnano il Sud: "Dobbiamo raccontarci e assumerci noi le verità scomode, anziché negarle o farcele rinfacciare dagli altri". Prima di tutto, dunque, una presa di coscienza...

Già ne "La razza Maledetta" decostruisco i paradigmi razzisti, antimeridionali. Tutti pregiudizi che – vorrei sottolineare – sono precedenti all'unificazione: per esempio, si dicevano dei calabresi delle cose pessime nella stessa Napoli nel '700. L'antropologia del post Unità non fa altro che adattare al nuovo paradigma scientifico della razza stereotipi e pregiudizi che erano comunque preesistenti. E' importante capire come queste immagini siano spesso la proiezione di uno sguardo esterno interessato, distorto, errato e di come in realtà agisca un pregiudizio forte nei confronti della Calabria e di tutto il Sud Italia. Ciò detto però il problema che io ho individuato nell'ultimo periodo è che certe volte i meridionali – e quindi i calabresi – hanno fatto di tutto per confermare questi pregiudizi, hanno concorso al rafforzamento dello stereotipo quasi volendo dare ragione a chi aveva individuato in queste terre dei luoghi maledetti, mostrandosi essi stessi maledetti, con un atteggiamento apatico, retorico, lacrimevole che non significa elaborazione di culture o risposta con l'azione a quello che è il pregiudizio. I pregiudizi sono nocivi, dannosi, orribili fino ad arrivare al razzismo ma la risposta non può essere affidata a una reazione difensiva ad oltranza, non può consistere in un arroccamento identitario. Se qualcuno ci definisce 'ndranghetisti, la risposta non può essere "non esiste la 'ndrangheta". La 'ndrangheta esiste, và capita nelle sue ramificazioni, nelle sue origini, nelle sue "ragioni" economiche, sociali, culturali, nel nome delle devastazioni che ha compiuto. Negare l'evidenza nel nome di un arroccamento identitario perché gli altri parlano male di noi lo trovo totalmente sbagliato. E d'altra parte rispetto a questo atteggiamento, che poi sfocia in una sorta di calabresità di maniera retorica edulcorata, forse bisogna cercare di elaborare un concetto di identità aperta, plurale, dinamica.

Recentemente ha detto: "Il termine identità mi mette in allarme, sento odore di retorica. L'identità è un inganno..."

E' una parola che spesso viene adoperata, anche dai media, con grande superficialità. L'identità non può che essere il frutto di una serie di eventi controversi, di rappresentazione. Le culture – proprio come gli individui – sono tante cose assieme. E quindi l'identità spesso è un crogiolo, è qualcosa di confuso e di contraddittorio. Ed è anche un inganno perché tante volte noi diamo per dato qualcosa che dato non è, perché l'identità è qualcosa che bisogna elaborare, costruire, à mettere in discussione. Non siamo superiori o inferiori per nascita e quindi anche la diversità và conquistata attraverso un processo elaborazione e di costruzione.

Calabresi a volte troppo permalosi. Nell'estate del 1959 Pier Paolo Pasolini si reca a Cutro per scrivere un articolo e lì numerosi incontri gli provocano la sensazione di aver visitato "veramente il paese dei banditi, come di vede in certi film western". Alla reazione indignata a quelle parole, Pasolini risponde: "Mi dispiace dell'equivoco, non si tiene mai abbastanza conto del vostro complesso di inferiorità e della vostra mania di persecuzione" esortando a non fare come gli struzzi "perché con la retorica non si progredisce..."

Pasolini da osservatore profondo della realtà e da intellettuale che amava le periferie, i margini e gli ultimi, si permetteva il diritto alla verità e a dire quello che pensava. E indubbiamente non si tirava indietro dall'individuare anche dei limiti nelle popolazioni che per l'appunto finivano con il rafforzare il luogo comune. E' significativa questa immagine dei calabresi che di fronte ai problemi nascondono la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. C'è questo atteggiamento difensivo e reattivo per cui se gli altri dicono delle cose non gradevoli nei nostri confronti, allora c'è una sorta di insurrezione, di ribellione indicandoli subito come razzisti. Ma spesso vengono fatte delle denunce che invece andrebbero assunte problematicamente e che dovrebbero far riflettere. C'è sempre una sorta di identità per reazione: ci si arrabbia di fronte ai giudizi negativi e si aspettano quelli, tanto attesi, positivi. Ma noi per avere una soggettività, una proposta, un progetto, perché dobbiamo aspettare sempre il giudizio degli altri? Per cui, se l'altro parla male, allora noi ci risentiamo e se invece parla bene noi ci rallegriamo. Noi dobbiamo entrare in dialogo con le rappresentazioni degli altri, ma queste non devono farci giocare al ruolo di vittime o di persone gratificate.

Pasolini venne frainteso, additato. Ciò accade anche oggi: lo scrive lei stesso nel suo libro come sia doloroso vedere come i pochi intellettuali, giornalisti, studiosi che denunciano la presenza della criminalità organizzata, il malaffare e la malapolitica, debbano difendersi da quanti li indicano calunniatori della propria terra

Capita a molti giornalisti, coraggiosi, che solo perché denunciano dei fatti vengano indicati come calunniatori. Si diventa "nemici della città" perché si indicano le piaghe e i difetti. Ma l'intellettuale, il libero pensatore, non deve essere compiacente, non deve adeguarsi al potere di chi comanda. Deve, con autenticità e persuasione, facilitare l'incontro e nello stesso tempo essere sempre all'opposizione. Invece io vedo che c'è un certo giornalismo che, invece di denunciare e di fare inchiesta, si crogiola su questi ragionamenti sull'identità, in un racconto retorico che viene costruito attraverso il racconto degli altri. E così scompare quella che invece dovrebbe essere un'analisi lucida della realtà. Io amo questa terra, ma questo non mi deve impedire di vedere i guasti, le devastazioni, i difetti. E soprattutto io ho il dovere di vedere e dire cosa non và, perché altrimenti sarei omissivo, compiacente. E non solo non mi sento offeso quando descrivono una situazione sgradevole, in maniera motivata, con dei dati di fatto. Ma anzi come calabrese io devo ringraziare chi lo fa perché contribuisce a mostrarmi nella mia differenza rispetto ad altri.

Si tende a nascondersi dietro un "noi" che spesso appiattisce le profonde differenze che ci sono. Lei stesso ha detto: "Non amo l'espressione 'noi calabresi' anche perché dentro ci vedo inserite persone con cui non vorrei avere nulla a che fare..."

Il "noi" tende ad attribuire la responsabilità sempre ad altri, a metterci in contrasto con gli altri e ad unificare quello che non è unificabile. In Calabria ci sono per esempio tantissimi "noi". Ci sono gli studenti che combattono la mafia, ci sono i giornalisti d'inchiesta, ci sono i giornalisti pifferai del potere, ci sono gli intellettuali, i professionisti. C'è la criminalità. E c'è chi combatte la criminalità. Quindi perché dobbiamo dire "noi calabresi"? c'è Calabria e Calabria. Ci sono situazioni in cui  le popolazioni non danno il meglio di se ed essere compreso in quel "noi" non mi piace affatto: rifiuto di sentirmi uniformato o uguale agli altri. Ma non per una presunta superiorità o per un atteggiamento aristocratico. Noi abbiamo bisogno di segnalare i limiti e i guasti proprio per il bene della Calabria. Questo è lo scatto che non si riesce a fare unitamente al fatto che abbiamo privilegiato un'identità dell'essere. Noi siamo un'identità assertiva e non un'identità del fare. Un'identità rivolta all'indietro, che guarda al passato: noi siamo stati la magna Grecia ecc. Bisogna scegliere qui ed oggi, conoscere il passato, studiarlo nella sua complessità, nella sua ricchezza e nelle sue contraddizioni per agire oggi. Continuare a ragionare sul passato, sull'essere (su cosa siamo stati) e non sull'operare (su ciò che possiamo fare), secondo me è sterile.

Guardiamo al passato e - in una sorta di immobilità mentale – non riusciamo a fare grandi passi in avanti...

Ci sono termini che vengono adoperati con grande superficialità: nostalgia, tradizione, memoria. Questi sono termini dinamici, che comportano movimento. Non sono termini fissi, immobili. La nostalgia non deve necessariamente essere rivolta al passato. Può essere una nostalgia rivolta al futuro, una nostalgia dell'altro, una nostalgia del nuovo mondo. Una nostalgia critica del presente. La memoria non può bloccarci al passato. Il passato và conosciuto – quando è necessario addirittura dimenticato – per poter andare avanti.

Nel saggio "Pietre di pane, un'antropologia del restare" si interroga sulla "restanza". Il dilemma partire o restare – ha spiegato – segna la nostra storia, la nostra antropologia, la nostra anima. "Chi decide di restare – ha detto – ha l'obbligo di dare un senso etico alla sua scelta, di muoversi pur restando fermo"

Mi sono occupato molto di emigrazione, di antropologia del viaggio, ho viaggiato molto, ho visitato le comunità di emigrati e ho visto che spesso vivevano con l'idea del mondo di origine, ma mentre avevano nostalgia cambiavano il loro mondo. Viceversa ho visto molte persone rimaste che hanno operato per il cambiamento. Io tenderei ad eliminare questa opposizione tra andare e restare, chi è rimasto e chi è partito che – certo, appartiene all'antropologia di questa terra – però non deve essere vista come qualcosa di conflittuale. Chi resta oggi, nella maggior parte dei casi, si trova nella condizione di disagio, spaesamento, difficoltà superiori a chi è partito. Allora vuol dire che questa scelta, questo atto, questo caso del restare deve essere assunto in maniera propositiva: se siamo rimasti è perché vogliamo che questi luoghi mutino, perché vogliamo renderli abitabili. E non restare come atto di immobilismo, apatia e indifferenza.

C'è chi resta. Chi parte. E poi c'è chi torna...

Molti, con le motivazioni diverse, fanno la scelta di tornare nel luogo dove sono nati i genitori. Tanti studenti che hanno fatto gli studi fuori, poi vogliono realizzarsi nel loro luogo di origine. Io penso che questo ritorno vada visto come una sorta di nuovo viaggio di fondazione: tornare per rifondare, per riorganizzare, per cambiare. È questo il senso anche del ritorno. Non si può ritornare per non fare nulla, il ritorno deve essere dinamico. Abitare nei luoghi non è un fatto gratuito, non è una concessione, è una scommessa, è un impegno. Significa rispettarli, amarli, dire quello che non và bene. Significa avere cura dei luoghi, riguardo. E riguardo significa capacità di guardare con un altro occhio ma anche di rispettare, di curare. Questo territorio è molto fragile, per le condizioni geografiche, geologiche, storiche e và protetto. Ma và protetto guardandolo prima che arrivi la catastrofe, il dramma. E non dopo. Ci sono eventi catastrofici che evidentemente non sono prevedibili. Però si possono prevedere le conseguenze che si verificano se noi non siamo stati molto attenti, se non siamo stati diligenti. Si possono limitare i danni, il numero dei morti, i guasti. E questo significa avere un rapporto affettivo con i luoghi che è fatto di amore continuo, costante nel tempo e non solo nell'emergenza, quando gli interessi poi pensano al profitto più che alle vite.

In Maledetto Sud scrive: "Sentirsi radicato e sradicato, qui e altrove, partito e rimasto, è forse la condizione dolce e dolorosa di chi capisce quanto sia diventato più piccolo il mondo ed enormemente più grandi i suoi problemi. Forse allora – continua – bisogna ripartire da una riflessione sulla possibilità e sulla necessità di sentirsi italiano pur sentendo l'appartenenza ad un luogo o ad un mondo"

Noi siamo tante cose. Siamo il posto in cui siamo nati, e che non ci siamo scelti, ma che poi abbiamo deciso di abitare o di lasciare. Siamo i nostri familiari, che non abbiamo scelto, ma che ci hanno cresciuto e con cui avremo sempre un rapporto. Siamo i nostri compagni di scuola. Siamo i libri che abbiamo letto, i viaggi che abbiamo fatto, le persone che abbiamo incontrato, le persone che ci hanno amato. Siamo fatti di pezzetti di noi che partono, che sognano. Che restano, che sono inquieti. C'è un'inquietudine che sicuramente appartiene alla geoantropologia della Calabria: la storia dei terremoti, delle frane, degli spostamenti, dell'abbandono dei paesi. Passaggi di popoli, la storia dell'emigrazione. Sicuramente c'è un sentimento di inquietudine che noi dobbiamo assumerci, che dobbiamo riconoscere e mettere a disposizione e in relazione ad altri sentimenti inquieti che solo in un progetto di riconoscimento dei luoghi si può trasformare in un progetto per riscattare una terra che ha le risorse, spesso evocate quasi in maniera liturgica, rituale, durante le campagne elettorali con retorica e non con persuasione. Se noi pensiamo che il paesaggio è la risorsa di questa terra, allora dobbiamo custodirlo, amarlo, proteggerlo. Se pensiamo che i giovani sono una risorsa, allora dobbiamo metterli in condizione di lavorare, far sì che non cadano vittime della criminalità. Che possano scegliere se partire o restare.