La Triplice a Reggio mezzo secolo dopo: prove di conseguenzialità e di “autunno caldo”

manifestazionesindacatireggioeditorialemariodi Mario Meliadò - «La domanda è: unire il Paese, non dividerlo!». Quando i segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil dal palco di piazza Duomo scandiscono queste parole, già molto intorno al senso ultimo della nuova imponente manifestazione nazionale della Triplice a Reggio Calabria, a 47 anni di distanza da quella – storica – del 1972, è assolutamente chiaro negli oltre 25mila presenti confluiti da ogni angolo d'Italia.

Presenze che alla città dello Stretto hanno fatto decisamente bene, per sprovincializzarla ulteriormente (non sarà mai abbastanza: basta dare un'occhiata ad alcuni deprimenti pseudoragionamenti circolati sui social network nelle stesse ore...) ma anche perché i lavoratori di Belvedere Marittimo e di Venezia indistintamente hanno avuto parole di sincera ammirazione per la bellezza e le potenzialità di Reggio.

Il punto è che di bellezza e potenzialità è ricchissima anche la nobile lotta per il lavoro e in nome dei lavoratori... Adesso non basta più: bisogna essere conseguenziali per forza di cose.

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«Unire il Paese e non dividerlo» difficilmente si può ottenere veicolando il "verbo" di chi ha un preciso mandato elettorale per dividerlo, invece, per attuare la "secessione dei ricchi" delle regioni economicamente più forti dagli "straccioni" delle regioni economicamente, e occupazionalmente, molto più deboli. E persino le risatine e le battutine davanti a magliette e cappellini di color verde-Lega di una delle forze sociali coinvolte, a ben guardare, una cosa la lasciano capire nitidamente: non è più tempo d'ambiguità, in nulla, neppure nei dettagli, neppure nelle "parole d'ordine", neppure nelle verbose e spesso illeggibili piattaforme programmatiche...

In nulla.

...Viceversa, è il tempo della chiarezza.

Essere chiari, allora, significa anche dire che quella reggina, se non sarà seguita da fatti precisi e concordanti, potrebbe pure risultare l'ultima delle grandi manifestazioni di questo tipo organizzate dalla Triplice: un coacervo sindacale che non sempre ha brillato per armoniosa unità e al quale c'è chi contesta "peccati" recenti e considerati gravissimi anche "da Sinistra" (uno su tutti? La remissività da boxeur incassatore rispetto all'abolizione dell' "articolo 18" sui licenziamenti senza giusta causa).

I riti – e dunque gli scioperi, e gli stati d'agitazione, e la solidarietà dopo le "morti bianche" come un grappolo d'ore fa al porto di Gioia Tauro, e gli scioperi di categoria, e le manifestazioni di piazza –, secondo certuni stantii, di sicuro traballano perché è il sostrato sul quale si fondavano, cioè il lavoro stesso, a scricchiolare pericolosamente da un bel po'.

A questo bisogna aggiungere l'indispensabilità di dimostrare coerenza a 360°: se si parte dal presupposto che il Mezzogiorno è un'ineludibile questione "almeno" nazionale, non si può relegare in un cantuccio o dimenticare una settimana dopo. Ma la coerenza a 360° è quella che non riguarda solo i contenuti, bensì pure il contenitore: diciamolo chiaramente, il popolo dei rappresentati (e anche dei non rappresentati, dei non-iscritti, perché il sindacato è Istituzione nel senso più puro: "parla" a tutti) perdonerebbe, forse malvolentieri ma perdonerebbe una dirigente sindacale nazionale che si scoprisse essere stata una delle "olgettine" del puttaniere di turno, epperò quella stessa dirigente sindacale, se scopre che di solo trattamento fine rapporto prende una somma pari a 100 volte lo stipendio mensile di un operaio, non la perdonerà mai e poi mai.

Per non parlare dell'appeal.

Fa poco fine dirlo, già: ma diversamente dal '72, nel 2019 i leader sindacali si misurano anche in capacità d'incidere, in efficacia dell'eloquio ben al di là di concetti anche importanti e sofisticati, in "presenza" sulla scena televisiva che, vuoi o non vuoi, è ormai da tempo la più importante delle "procedure di raffreddamento" a fronte di vertenze grandi e meno grandi.

E in questo senso, lasciateci anche dire che la congiuntura per la Calabria e per Reggio Calabria è positiva: senza scendere nel merito ed evocare riti apotropaici di risposta, non in una ma addirittura in due delle maggiori organizzazioni sindacali italiane siamo a un passo dall'avere nuovamente un segretario generale di Reggio Calabria, a 27 anni dal '92 in cui Pietro Larizza scalò la segreteria nazionale della Uil (84 anni il 21 luglio prossimo, il reggino Larizza è stato anche senatore e presidente del Cnel). La congiuntura ce lo dice forte e chiaro. E sarebbe uno strepitoso segnale anche questo, per il Paese tutto intero e nei confronti di un territorio che spesso si maltratta da sé ma almeno altrettanto spesso viene pure maltrattato e umiliato, quello calabrese. Incrociare le dita è il meno che si possa fare.

...Naturalmente, l'Altare maestro della conseguenzialità su scala-Paese e a maggior ragione al Sud e in Calabria non può che essere uno: se i sindacati confederali tuonano contro le ragioni strutturali che rendono rigido il nostro mercato del lavoro e difficile la nascita di nuove occasioni occupazionali, ma soprattutto si scagliano contro le pessime politiche del lavoro del Governo centrale di turno, è chiaro che il popolo di chi lavora ma soprattutto di chi – pur desiderandolo e avendone ampie capacità – malauguratamente non lavora si aspetta coerenza proattiva. Questo sterminato popolo si aspetta cioè che da settembre, alla "ripresa delle ostilità", Cgil Cisl e Uil (ma, se è per questo, anche le numerose sigle sindacali extra-Triplice) si spendano al top per la creazione di nuove occasioni occupazionali e al contempo rendano la vita impossibile a chi, sullo scenario della politica nazionale che "conta", detiene potere reale senza riuscire a incrementare in modo sensibile il numero dei posti di lavoro nel Paese e nelle regioni meridionali in particolare, producendosi in una vera lotta senza quartiere fino all'ottenimento di risultati veri, importanti, sostanziali e non di facciata. Che magari ricomprendano un clamoroso ripensamento proprio sul vituperato "articolo 18", chissà...

E in fondo, se "autunno caldo" dev'essere, che lo sia in nome del Sud.